Ahmet Őzal, figlio di Turgut Őzal (Primo Ministro turco fra il 1983 e il 1989 e poi Presidente della Repubblica dal 1989 alla morte, avvenuta quattro anni dopo) ha sporto denuncia contro il generale Sabri Yirmibeşoğlu, che fu a capo del Dipartimento operazioni speciali dell’Esercito: l’accusa è di avere organizzato, il 18 giugno 1988, un tentativo di assassinio del padre, all’epoca ritenuto dagli ambienti militari troppo “amico dei curdi”.
Il generale nega le accuse, ancora da provare, ma resta sintomatico che lo stesso personaggio abbia ammesso le gravi responsabilità di quel dipartimento in due precedenti tragici eventi: nel 1955 in un attentato contro un museo di Salonicco dedicato ad Atatürk – attentato destinato a scatenare la rabbiosa violenza degli estremisti turchi contro i greci a Istanbul e a Izmir, con un bilancio di 16 morti e decine di feriti gravi – e nel 1974 nell’incendio doloso di una moschea a Cipro, anche qui artatamente attribuito ai greci per attizzare il fuoco tra gli stessi e i turchi.
Frammenti di una guerra sotterranea che ha causato, in decenni vissuti tra operazioni speciali e colpi di Stato, migliaia di morti in Turchia, con il beneplacito dei potenti alleati statunitensi, padroni assoluti del Paese.
Non è un caso che una fondazione come l’ARI, istituita nel 1994 e strettamente collegata alle maggiori lobbies sioniste quali l’AIPAC e il JINSA, è ora impegnata a coprire e minimizzare i guasti dell’”operazione Ergenekon”: significativo che un suo esponente di spicco sia Anthony Blinken, consulente sulla sicurezza nazionale USA per conto del Vicepresidente Biden, da sempre nemico giurato della Turchia.
La parola d’ordine per questi falsari è: Ergenekon non esiste, se non come pretesto creato dagli “islamisti” per imporre il loro potere assoluto; del resto contro il governo dell’AKP anche buona parte della stampa turca è mobilitata: in prima fila il magnate Aydın Doğan, proprietario del gruppo DMG, di gran lunga il maggior gruppo editoriale e mediatico della Turchia . Accusato di evasione fiscale e condannato a una supermulta di oltre un miliardo di lire turche (l’equivalente di circa mezzo miliardo di euri), Doğan è stato per ora salvato dal Consiglio di Stato, che ha bloccato nei giorni scorsi l’imposizione dell’ammenda, in attesa di una nuova pronuncia giudiziaria.
Intanto la guerriglia terrorista del PKK rimane virulenta (nove morti ad Hakkarı nell’esplosione di un minibus), ma si tratta di un PKK sempre più infiltrato e manomesso da Mossad e servizi americani: in una recente intervista Hüseyin Yıldırım, ex numero due dell’organizzazione, ha accusato il PKK di essere ormai uno strumento manipolato dai militari turchi e dalla NATO, e i suoi attuali maggiori dirigenti (ha citato Semdin Sakık e Selim Čürükkaya) di far parte della “Gladio turca” (Ergenekon). In un’intervista di inizio anno lo stesso Őcalan aveva confessato di avere perso il controllo dell’organizzazione PKK, e sottolineato la strategia statunitense di frammentazione dell’area vicino orientale.
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Contro questi tentativi di destabilizzazione e di frammentazione – che hanno ricevuto un parziale ma non risolutivo colpo con il referendum del 12 settembre – la Turchia di Erdoğan e di Davutoğlu risponde con una politica di comunicazione e di solidarietà che trova successo e riscontro nei Paesi vicini – creando realmente una rete di incontri e di collegamenti utilissimi in prospettiva eurasiatica.
Nelle scorse settimane è nato il Consiglio per la cooperazione dei paesi turcofoni, con sede a Istanbul, mentre in questi giorni si tiene – nella stessa città – il Forum su economia ed energia dei Paesi del Mar Nero. L’esecutivo si muove in armonia con la volontà prevalente della popolazione, attestata anche in recenti sondaggi internazionali (gli ultimi quello del Pew Research Center Global Attitudes Survey e quello del German Marshall Fund’s Transatlantic Trends Survey): una fiducia massiccia e in crescita verso i Paesi vicini, Iran e Russia compresi, una notevole freddezza verso gli Stati Uniti d’America.
Proprio negli USA si manifesta la maggiore incomprensione per il ruolo svolto dalla Turchia, tradizionale “testa di ponte” atlantica della seconda metà del secolo scorso; di passaggio, vogliamo citare un curioso recente intervento di Stephen Kinzer apparso su Reset e ospitato sul sito di Foreign Affairs, pubblicazione del CFR (Council on Foreign Relations): in Iran, Turkey and America’s future egli propone una inedita alleanza fra i tre Paesi “per promuovere una cultura della democrazia e combattere l’estremismo” !
L’idea potrebbe essere qualificata semplicemente come bizzarra se non celasse – è un’ipotesi – una strategia di “addomesticamento” dell’Iran e della stessa Turchia con metodi da rinvenire nel vasto repertorio strumentale statunitense.
*Aldo Braccio, esperto del mondo turco nelle sue relazioni interne ed internazionali