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Il Messico nella morsa Usa-narcos

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La crisi attuale del Messico è la fase terminale di uno Stato che ha sempre vissuto all’ombra dell’ingombrante vicino settentrionale, gli Stati Uniti d’America.

Non va mai dimenticato che le iniziali aggressioni statunitensi, prima di proiettarsi su scala globale, avvennero ai danni dei propri vicini.

Diventato indipendente dal dominio coloniale spagnolo nel 1821, subito il Messico divenne preda ambita per gli interessi statunitensi. Interessi in un primo tempo di natura prettamente territoriale. L’oggetto del contendere era il possesso del Texas, regione strategica che venne conquistata da Washington al termine della guerra combattuta dai due Paesi tra il 1846 e il 1848, conclusasi con una sconfitta drammatica per i messicani che addirittura subirono l’onta dell’occupazione della capitale, Città del Messico. Il conflitto si era sviluppato a seguito di una serie di provocazioni da parte nordamericana. Il Texas era riconosciuto dal precedente dominio spagnolo come parte integrante del Messico, ma gli Usa lo rivendicavano per una (presunta, a dir poco forzata) continuità territoriale con la Louisiana. Le rivendicazioni avevano creato problemi già alla Spagna, che aveva tentato inutilmente di dirimere la questione attraverso la strada della diplomazia, col Trattato Adams-Onìs del 1819. A questo seguì una massiccia campagna di colonizzazione di popolamento da parte statunitense: il Texas messicano, in particolare la sua zona orientale, si vide letteralmente invaso da masse di immigrati tedeschi, olandesi e anglosassoni in cerca della loro “terra promessa” (ricorda vagamente la vicenda di un piccolo lembo di terra medio-orientale…). Coloni tutt’altro che pacifici verso la legittima autorità messicana, tanto che fra il 1835 e il ’36 insorsero in armi e combatterono quella che venne definita negli Stati Uniti la “Rivoluzione Texana”, con la sconfitta dell’esercito regolare guidato dal generale Santa Anna e la proclamazione della Repubblica del Texas. A tutti gli effetti uno Stato-fantoccio che Washington annetterà unilateralmente nel 1845. Il conflitto si protrarrà fino al 1848, con la definitiva capitolazione messicana e l’umiliante cessione territoriale che ne seguì: non solo il Texas, già da anni indipendente “de facto”, ma anche quelli che oggi sono la California, il Nevada, lo Utah e parti degli odierni Colorado, Arizona, Nuovo Messico e Wyoming. Insomma, una vera e propria amputazione territoriale che ebbe conseguenze pesantissime sull’economia dello Stato, e anche (aspetto decisamente non secondario) sul carattere nazionale: con la batosta subita, il Messico precipitò in una situazione di subalternità, una sorta di complesso di inferiorità che perdura anche oggi, soprattutto nella sua classe dirigente. Da allora, la politica messicana è diventata in gran parte servile e prona ad ogni richiesta di Washington. Gli statunitensi hanno fatto capire con la forza chi comanda nel continente.

Questa introduzione di carattere storico è necessaria quindi per comprendere meglio il Messico di oggi. Con un’importante postilla economica, questa volta dei giorni nostri: il 17 dicembre 1992 (ma entrerà in vigore a partire dall’1 gennaio 1994) George Bush padre, il premier canadese Brian Mulroney e il presidente messicano Carlos Salinas firmano in pompa magna il North American Free Trade Agreement, noto ai più come Nafta. Il cappio al collo definitivo per la residua sovranità messicana e per la sua economia nazionale. Figlio della mentalità da anni ’90 (trionfo della globalizzazione e feticcio del mercato unico), il Nafta venne presentato sotto l’innocua etichetta di “accordo volto a eliminare le barriere di commercio e investimento fra Stati Uniti, Canada e Messico”. In pratica stabilì un’immensa area di libero scambio fra Centro e Nord America. Gli unici a capire il tranello furono i sindacati statunitensi e canadesi, e insieme a loro i coltivatori messicani (in un Paese in cui l’agricoltura gioca un ruolo di primo piano). I primi capirono che il risultato dell’accordo sarebbe stata una serie di delocalizzazioni in Messico da parte delle multinazionali che intendevano risparmiare sul costo del lavoro (facendo ricorso alle fabbriche-prigioni note come “maquilas” o “maquiladoras”), i secondi invece hanno visto minacciato il proprio lavoro dalla concorrenza scorretta degli Usa, in cui l’agricoltura viene sostenuta con pesanti sussidi che drogano i prezzi finali dei prodotti, abbassandoli di molto e rendendoli più appetibili sul mercato. Conseguenze? La deindustrializzazione negli Stati Uniti, con relativa perdita di posti di lavoro e macelleria sociale, e l’abbandono di un numero altissimo di fattorie messicane con un forte calo della produzione agricola nel Paese (per quanto riguarda il Canada, le ripercussioni negative si sono avute soprattutto sul piano ambientale a causa dello sfruttamento intensivo di boschi e risorse acquatiche per fini industriali).

I messicani, quindi, sono divenuti a tutti gli effetti schiavi utili al profitto del capitale statunitense, esportati come merce a basso costo (il Nafta ha tra i suoi capisaldi la libera circolazione dei lavoratori). Come se non bastasse, in seguito è proseguita una dissennata politica di liberalizzazione e privatizzazione dei settori strategici dell’economia, smantellando pezzo per pezzo la presenza dello Stato e affidando le sorti del Paese alla speculazione internazionale.

In questo quadro desolante, l’intera struttura politica e sociale del Messico ha subito sconvolgimenti drammatici. Va detto che già prima lo Stato messicano era in crisi: corruzione endemica, criminalità e un sistema partitocratrico chiuso e consociativo, basato sul dominio assoluto del Partido Revolucionario Institucional (Pri), di centrosinistra, e del Pan (Partido Acciòn Nacional), di centrodestra, con alcune formazioni minori a spartirsi le briciole. Per capire quali sono i reali interessi che muovono la politica di Città del Messico, basti sapere che Vicente Fox Quesada, presidente dal 2000 al 2006 proveniente dalle fila del Pan, ha cominciato la sua attività pubblica come… presidente della Coca-Cola Company.

Il dissenso della popolazione, largamente (e giustamente) sempre più critica nei confronti delle autorità centrali, ha avuto picchi come la rivolta zapatista in Chiapas negli anni ‘90, scatenata proprio in occasione dell’entrata in vigore del Nafta e dalle rivendicazioni dei gruppi indigeni (storicamente vessati e discriminati), e imponenti mobilitazioni dei movimenti sociali come quelle del 2006 nella regione di Oaxaca, ma non è tuttavia mai riuscito ad esprimere un’alternativa concreta all’ingessato sistema di potere messicano.

Purtroppo nel frattempo di contropotere ne è sorto un altro, di ben altra natura e decisamente pericoloso: quello dei narcos. Per evidenti ragioni geografiche, il Messico è stato per decenni un punto di snodo e di passaggio per la droga in tutto il continente americano. Tuttavia le organizzazioni criminali locali non erano al livello di quelle colombiane dei cartelli di Cali e Medellin (il cui referente messicano era Miguel Angel Felix Gallardo), che hanno detenuto il monopolio del mercato della cocaina dagli anni ‘70 fino ai ’90. Una volta che i colombiani avevano accumulato troppo potere ed erano diventati troppo ingombranti anche per i loro protettori politici, la Dea (Drug Enforcement Administration) statunitense e il governo di Bogotà si decisero a toglierli di mezzo. Nel 1993 l’uccisione di Pablo Escobar pose di fatto la parola fine all’organizzazione di Medellin, mentre il gruppo di Cali venne decapitato da una serie di arresti eccellenti fra giugno e luglio del 1995.

A quel punto, il traffico degli stupefacenti in America era rimasto senza un padrone, ed è qui che cominciano ad affacciarsi sulla scena i gruppi messicani. Diversamente dai colombiani, sin da subito la galassia messicana appare molto più frastagliata e complessa. Tanti gruppi in perenne lotta fra loro, e se possibile molto più violenti dei loro predecessori in Colombia. Secondo le ricostruzioni più recenti, si possono individuare otto cartelli principali: Juarez, Tijuana, Los Zetas, Beltran-Leyva, Golfo, Sinaloa, La Familia e i Los Negros facenti capo a Edgar Valdez Villarreal. Proliferati senza alcuna opposizione sotto la presidenza Fox, nel 2006 il neo-eletto Felipe Calderon (anch’egli del Pan) dichiarò loro guerra. Lo Stato decise di muoversi quando ormai però era troppo tardi. Nel corso di questi anni, il Messico è diventato il primo produttore su scala mondiale di cannabinoidi e il principale luogo di smercio verso tutto il pianeta della cocaina proveniente dalla Colombia (che resta saldamente il primo produttore al mondo, nonostante i presunti successi sbandierati in merito da Uribe).

Radicati nel territorio, i cartelli hanno creato delle proprie enclavi autonome, degli Stati nello Stato in cui l’unica autorità riconosciuta è la loro e non quella del governo centrale. Ciascun gruppo criminale si caratterizza per avere una doppia struttura parallela: da un lato la branca dedita agli affari e ai traffici illeciti (cocaina ma non solo, anche eroina, metanfetamine e cannabinoidi), dall’altro un braccio armato, che nel corso del tempo sono cresciuti fino a diventare veri e propri eserciti privati che ogni cartello possiede. A quattro anni dall’inizio della campagna anti-droga, si può dire che il bilancio per il governo messicano sia negativo. Dal 2006 ad oggi, il numero dei morti dovuti al conflitto viene calcolato vicino alle trentamila unità, ed è in crescita continua anno dopo anno. Il potere dei cartelli non è diminuito, semmai è accresciuto. Ciò che è peggiorata tragicamente è la condizione di vita dei semplici cittadini nelle zone di conflitto, esposti alla brutalità di entrambe le parti in causa. I poteri speciali conferiti alle forze di sicurezza hanno dato origine a una lunghissima serie di soprusi su persone del tutto estranee al narcotraffico, incarcerate senza motivo e spesso vittime di torture, tanto da costringere le autorità a sciogliere un organo creato ad hoc nel 2001, l’Agencia Federal de Investigaciòn (Afi), al centro di numerosi casi di corruzione interna e di violenze sulla popolazione. Dall’inizio della guerra, i massacri motivati solo dalla volontà di infondere timore nella popolazione ormai non si contano più e raggiungono livelli elevatissimi di spietatezza e crudeltà, con tanto di mutilazioni sommarie. A parte qualche sporadico arresto di alto livello (un mese fa quello di Villarreal, detto La Barbie), il solo risultato ottenuto finora è stato spingere i cartelli, fino al 2006 in continua guerra fra loro, a stringere alleanze contro il nemico comune: si sono formate due maxi-fazioni, una composta da Tijuana, Los Zetas, Juarez e Beltran-Leyva, l’altra da Golfo, Sinaloa e La Familia. A differenza dei colombiani, i messicani non sono stati per nulla intimoriti dalle velleità repressive dello Stato nei loro confronti; anzi, sono passati a confrontarsi militarmente senza alcun timore con polizia ed esercito. Forti di uomini più motivati e il più delle volte meglio retribuiti rispetto a quelli delle forze di sicurezza, gli eserciti dei cartelli possono anche contare su arsenali di tutto rispetto, con il 90% delle armi di provenienza statunitense. Si va dall’onnipresente Ak-47 (comprese moderne versioni modificate), fino alle granate a frammentazione M61 e M67, al bazooka M203 e al sempre efficace Rpg-7. Stando alle informazioni più recenti, starebbero affluendo nel Paese anche carichi di armamenti anti-aerei per contrastare i blitz con elicotteri delle forze speciali, nonché mini-sottomarini per il trasporto via mare della droga.

A ciò si unisce anche un fattore importantissimo: la permeabilità delle strutture statali all’infiltrazione e alla corruzione. Buona parte delle truppe dei narcos sono disertori provenienti dai Gafes (Gruppo delle Forze Speciali Aviotrasportate), uomini addestrati in strategie anti-droga sul finire degli anni ’90 nel Centro per le Forze Speciali dell’esercito Usa a Fort Bragg, in Carolina del Nord. La corruzione è presente in gran quantità tra le forze di polizia (recentemente la Polizia federale ha licenziato il 10% del suo personale per connivenza coi narcos!), ma anche nelle alte sfere della magistratura, dei mass-media e della politica. Gli uomini del Beltran-Leyva hanno potuto contare sulla simpatia quasi pubblica dei governatori del Pan nell’area di Cuernavaca, loro base operativa. Si è parlato addirittura di un patto tra Sinaloa e governo centrale per eliminare tutte le altre organizzazioni (ovviamente negato con sdegno dalle autorità). Il padrino di Sinaloa è l’uomo più potente del Messico: Joaquin Guzman Loera, detto El Chapo. Già arrestato nel 1993 in Guatemala ed evaso nel ’95 dopo avere corrotto praticamente l’intero penitenziario in cui era detenuto (direttore compreso), El Chapo figura nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi al mondo. Ex socio in affari dei fratelli Beltrand-Leyvas, Guzman ha amici molto influenti a Los Pinos (il palazzo del governo): “casualmente” la sua rocambolesca fuga avviene subito dopo l’elezione alla presidenza di Fox, e secondo diversi osservatori un accordo di pace con lui potrebbe essere la carta vincente di Calderon per farsi rieleggere nel 2012. Ormai l’influenza dei narcotrafficanti messicani li ha resi una potenza sulla scena globale del crimine: sono stare riscontrate tracce della loro attività anche in Europa (accordi strategici con la criminalità organizzata locale, in primo luogo la ‘ndrangheta), Africa occidentale e naturalmente nell’intero continente americano, Usa compresi. L’interesse di Washington per il conflitto in Messico è dovuto principalmente a tre fattori: primo, limitare l’afflusso di droga verso il mercato interno, cresciuto a livelli esponenziali (si calcola che ormai il 90% della cocaina destinata agli Stati Uniti transiti attraverso il Messico, rispetto al 50% di qualche anno fa); secondo, garantire la stabilità interna del fedele alleato meridionale; terzo, evitare che l’anarchia oltrepassi il confine e arrivi fin dentro casa propria. Diversamente da quanto avveniva coi colombiani, infatti, adesso il problema è alle porte, a pochi chilometri dalle grandi città californiane. La comunità di cittadini messicani negli Stati Uniti può contare su numeri enormi, non chiaramente quantificati, tra regolari e clandestini. Ogni giorno, frotte di disperati in fuga dalla violenza e dalla miseria oltrepassano illegalmente il confine per entrare negli Usa, dove li aspetta una vita altrettanto misera e all’insegna dello sfruttamento. Le attività dei cartelli sono arrivate ad estendersi fino al New Jersey, e l’allarme sociale ha toccato livelli altissimi negli Stati meridionali come Texas, California e Arizona, in cui il sentimento anti-messicano è da sempre un’ossessione, per le note ragioni storiche. Già dal 1990 il governo messicano è stato costretto sotto diktat di Washington a costruire una barriera di separazione nel principale punto di passaggio dei clandestini, per limitarne l’afflusso negli Usa: il Muro di Tijuana, simbolo della sottomissione dell’esecutivo di Città del Messico al vicino settentrionale, tanto da ingabbiare il suo stesso popolo in fuga dalla povertà che proprio gli Stati Uniti con le loro politiche predatorie hanno contribuito a creare (quel che si dice nemesi storica…). Il 22 ottobre 2007, poi, il Congresso Usa ha autorizzato la cosiddetta Merida Initiative (Iniziativa di Merida), un piano di finanziamenti pari a 1,6 miliardi di dollari destinati al Messico e in misura minore ad altri Paesi dell’America Centrale per sostenere la repressione militare dei gruppi criminali e la lotta sul piano economico al riciclaggio di denaro sporco derivante dal narcotraffico. Ovviamente tutto a patto di seguire ciecamente le direttive politiche impartite dalla Casa Bianca: una sorta di riproposizione su macro-scala del Plan Colombia, con il quale Washington tiene al guinzaglio l’esecutivo di Bogotà.

Il Messico rischia dunque di diventare uno Stato fallito, e di trascinare l’intera regione in una crisi dalle conseguenze imprevedibili. Usa compresi.

Alessandro Iacobellis, laureato in Scienze della Comunicazione con una tesi in Storia Contemporanea, si occupa di politica internazionale e geopolitica


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